Barbara Baraldi, Lullaby. La ninna nanna della morte – HORROR/THRILLER – Castelvecchi – Le Torpedini – 2010 – pagine 232 – prezzo 15,00 euro – giudizio:
“Alberi, sole accecante, campi di grano”.
E buon odore di carta intonsa, quando si apre un libro nuovo di zecca.
E’ qui che avviene il primo delitto del nuovo romanzo di Barbara Baraldi, in un “futuro prossimo” da cui bisogna inizialmente distanziarsi e, come si diceva nelle fiabe, fare un piccolo passo indietro, per capire cos’è appena successo. Ed è proprio un alone di fiaba quello che avvolge la trama, accompagnato dalla melodia dolce e ossessiva della ninna nanna dei Cure.
“Mi guardo alle spalle. Ormai sono troppo lontana dalla strada, completamente coperta dall’ombra della grande cisterna. Avverto il pericolo, mai tornare indietro in caso di pericolo. Troppo prevedibile. Allora corro avanti.
Inciampo.
D’istinto allungo le braccia. Lo abbraccio quasi, la mia bocca a pochi centimetri dalla sua. Spalancata, come gli occhi. Il cadavere, occhi vitrei che non vedono, mi fissa. Sgozzato, scomposto.
Grido.”
La fiaba diventa oscura, nera, rosso sangue, riportandoci alla memoria quel Barbablù che ha disturbato i nostri sonni infantili, o alimentato le nostre fantasie di scrittori e lettori.
Marcello, aspirante scrittore, debole e cinico, che forse non terminerà mai il libro che ha cominciato a scrivere, ha una madre che russa, “ansima, è golosa d’aria”, ingorda della vita del figlio che vuole trattenere, possedere, a cui ruba — forse — i pensieri. Non affettuosa, non dolce, ma “presente”, così presente da voler vivere anche la sua vita.
E poi c’è Giada: bruna, “occhi verdi dalla forma allungata che le regalano uno sguardo all’orientale e una bocca da baciare. Indossa un giubbotto rosa e paio di jeans scoloriti.” Un’adolescente fragile, triste, che a causa di un’imposizione familiare non può più frequentare lo sballato di cui si è invaghita. Giada cerca di prendersi un po’ di vita, allargando le braccia come gli angeli caduti, gli angeli senza ali di cui le parlava sempre il nonno quando era piccola, e ne riconosce uno nella compagna di scuola Luana.
Luana è l’immagine speculare di Giada: “magra, uno di quei casi più unici che rari in cui la magrezza si accoppia a curve mozzafiato. Il culo esce dai jeans stretti come scolpito nella pietra. I capelli lucenti sono pieni di sfumature naturali come camomilla fiorita e profumano di buono. Un prato dove correre a perdifiato per poi buttarsi a terra e respirare la vita.” Ma a Giada non sarà più permesso di vedere nemmeno lei. Per la “famiglia bene” della ragazza, Giada è una cattiva compagnia.
I destini delle due giovani si incrociano con quello di Marcello, che ha un bambino racchiuso nella pancia gonfia che ha promesso di uccidere sua madre non appena verrà partorito; Marcello, che pedina una neo mamma casalinga; Marcello, che al bar conduce da sempre una battaglia fatta di frecciate e ferite con “l’amico per caso” Fede, per caso anche padre di Giada; Marcello, che fantastica di uccidere, un sacrificio di sangue alla Dea Ispirazione, ma non lo fa mai (o forse sì?), quasi fosse il libro che non riesce a scrivere, finendo addirittura col fare del male a se stesso.
Marcello per Giada è il mostro che confabula con suo padre e che, forse, come dice lo schermo del computer che lo vede fissare in continuazione, spiandolo dalla finestra, vorrebbe uccidere proprio la sua Luana.
I paragrafi e le soggettive dedicati a Marcello e Giada si intrecciano e si alternano spingendo il lettore a proseguire, per conoscere il seguito delle vicende quando dell’uno, quando dell’altra.
Sono la disperazione, la rabbia e la solitudine che li faranno alleare.
Le vittime diventano carnefici, i presunti carnefici ostaggi, appare impossibile capire chi fa cosa, quando e dove, e il lettore resta avvinto, appeso a quel sottile, invisibile filo di trama che gli è consentito di “vedere”.
Solo nel finale, l’assassino e Barbara ci faranno capire di averci preso in giro per tutto il tempo, così come l’assassino ha preso in giro il protagonista.
E allora potremo anche vedere i volti che, ce ne renderemo conto solo a quel punto, non avevamo ancora visto. Volti di cui abbiamo udito solo la voce, seppur odiosa, nonostante fisicamente ci siano stati anche troppo.
Ma è solo perché qualcuno è cambiato, e noi con lui.