:: Recensione di Lullaby di Barbara Baraldi a cura di Giulia Guida
“Come pagine strappate da un libro di favole.” [Rileggendo “Lullaby”, B. Baraldi.]
Giada si abbraccia stretta nella sua felpa scura, mette il muso a una primavera che le cade di traverso, a lei che non sa parlare altro che l’inverno. Che si sente figlia delle piogge acide. Nuvola di un temporale di novembre. Ci sono giorni in cui crede di stare per svanire, tutto la attraversa in trasparenza, non riesce più a ricalcare i suoi confini, a volte sente di non averli affatto, a volte vorrebbe gridare così forte da riuscire a disintegrarli. Giada non è quello che gli altri si aspetterebbero da lei. Non ha il decoro della famiglia borghese in cui è cresciuta, si veste come un maschio, esce di nascosto con Mirko, il figlio del panettiere- dicono che sia un cattivo ragazzo, uno che si droga, le piace perdere il contatto con la realtà, mentre i nodi si sciolgono dentro la polvere bianca.
Giada sta tutta in dieci unghie nere, tagliate con i denti, morse ai lati, pelle sbucciata. Giada sta nelle sue mani di cartapesta, con quella voglia di rompere e spezzare che brucia solo dentro a chi ha quindici anni e in un modo o nell’altro finirà per averli per sempre. Giada sta in una pelle da bambina, di un bianco rovente. Gocciola dentro un paio di occhi ametista spalancati su un vicolo cieco. Ed è un buio che non si racconta, perchè è un’oscurità clandestina, fatta di sotterfugi e desideri neri. E’ la notte di chi ha quindici anni e non ha paura di dire la parola morte. E’ il letargo ribelle dell’adolescenza, di chi non c’ha ancora fatto l’abitudine e vuole provare disprezzo per ciò che non condivide, di chi vuole conoscere l’amore e finisce per incontrarlo nella violenza.
Giada ha quindici anni e vuole morire con le cicatrici addosso. Ingoiare giù tutte le sue fragilità e avere qualcosa da raccontare che sia fuori dal comune. Che sia solo suo, che appartenga al suo mondo. Vuole scriversi nei suoi incubi, nelle sue ninnananne della morte, nelle sue labbra sbavate, nelle sue gambe nervose, nei suoi capelli distratti. Nei suoi occhi scarabocchiati, come appunti presi troppo in fretta. Giada si perde nella leggerezza blu di Luana, la sua principessa dell’Est, la porta con sè, mano nella mano, labbra contro labbra. Compagne di giochi, complici segrete, la protagonista e la sua aiutante magica unite contro l’incubo.
Marcello si guarda allo specchio, da lontano. Chiuso dentro una faccia giallo opaco, capelli scoloriti, una pelle ruvida, le prime rughe a tradire il ricordo che ha di sè. Non sorride, non ne ha mai avuto abbastanza coraggio. Quarant’anni quasi. Senza un lavoro, senza una donna. Scrittore in crisi creativa, da anni in cerca della musa giusta, pronto a sacrificare sangue, a mietere morte per la dea ispirazione. Quarant’anni vissuti attaccato al cordone ombelicale di una madre che non lo lascia respirare, una madre malata dietro cui continua a nascondersi. Quarant’anni passati ad accatastare scuse pur di non fuggire, per mascherare la sua inettitudine di fronte agli amici più cari, davanti a Federico, tutto preso dalle sue beghe familiari, da quella figlia uscita storta che non riesce proprio ad afferrare, a mettere in riga, a capire. Marcello che passa le sue giornate di fronte a una pagina bianca del computer. Bianco sepolcro, bianco di ghiaccio, bianco senza battito cardiaco. Marcello che è un uomo in attesa, si accarezza nella pancia la cattiveria di un bambino.
Giada e Marcello sembrano disegnati in una di quelle vecchie fiabe in cui il lieto fine può essere solo un colpo di scena, ma non arriva mai davvero, non arriva mai alla fine. Uno di quei racconti in cui anche il male esiste e spesso finisce per avere la meglio. Qualsiasi lotta è vana, l’eroe deve morire o sentire la morte. Vederla accadere. Tutte le sue peripezie, altrimenti, non avrebbero alcun senso. Resta lui solo aggrappato ai bordi dell’ultima pagina. Vivo, certo, ma irriversibilmente solo. Il sangue e la morte sono gli oggetti magici necessari a ristabilire l’ordine iniziale, tornare a riappropriarsi della vita, ridare un valore alle parole, ripulire gli anni dai silenzi meteoritici e dai detriti di bugie ammucchiati in ogni stanza.
Una serie di omicidi portano le loro strade ad incrociarsi. Il corpo di un ragazzo, in periferia, vicino a una baracca diroccata. Gli occhi sbarrati da una luce ferma, una mano di sangue contro il muro. E Giada che corre a perdifiato verso la strada, perchè non può far altro che tornare indietro e soffocare in gola quell’urlo sfocato che le ha appannato gli occhi. E’ con questa immagine che ha inizio “Lullaby”, romanzo corale di Barbara Baraldi, edito quest’anno da Castelvecchi. Una scrittura stregata e vitale soprattutto nei capitoli dedicati a Giada. Più concreta, pensosa, riflessiva nelle parti in cui prende la parola Marcello.
La Baraldi aggiunge indubbiamente un’altra prova importante ai suoi lavori precedenti, avvicinandosi e discostandosi nei diversi passaggi dagli schemi convenzionali della letteratura gotica contemporanea, definizione da cui credo sia giusto prendere in parte le distanze in questo caso, per non correre il rischio di ricondurre l’intera struttura del romanzo alle dinamiche di base di un solo genere.Una Baraldi gotica, certo, ma senza troppe gabbie.
Giulia Guida
Articolo pubblicato su Liberidiscrivere
Ma quanto è brava Giulia? Le sue recensioni sono poesia…
Brava Barbara, porti a casa un altro parere positivo 🙂
Grazie Ale! Adoro questa recensione e devo confessare che leggerla mi ha emozionata.
Un bacione