La Collezionista di sogni infranti incontra Barbara Baraldi
in collaborazione con Paolo Maffei
Cosa accadrebbe se il personaggio di un romanzo avesse in dono un corpo fatto di sangue e carne, voce e volontà propria, per un giorno intero? E se decidesse di compiere un viaggio per incontrare il suo creatore?
La triste e incantevole Amelia, già protagonista della fiaba nera “La collezionista di sogni infranti” (PerdisaPop 2007) incontra Barbara Baraldi, definita l’autrice più promettente del nuovo racconto gotico italiano e vincitrice di vari premi letterari, tra cui il prestigioso Gran Giallo città di Cattolica nel 2007. Tra le sue uscite, una per la collana “Il giallo Mondadori presenta”: “La bambola di cristallo” nel 2008.
A metà tra il racconto e l’intervista, seguiamole lungo un viaggio senza destinazione apparente in attesa del sequel previsto per febbraio, “La casa di Amelia” (PerdisaPop).
“È questo l’ultimo giorno?”. Me lo chiedo spesso oggi, è la mia ossessione. L’ultimo giorno in questo mondo. Pianto lo sguardo fuori dal finestrino del treno, assordata dal fracasso della sua ferraglia. Gli anni 70 sono finiti da un pezzo, ma nessuno l’ha detto a questo orgoglioso verme di metallo dal motore diesel e i fanali tondi che continua imperterrito a solcare la pianura. Il mio sguardo si perde nel paesaggio che scorre e prende forma come in un libro pop-up da cui spuntano casette, alberi e mucche. Pagine che si aprono velocemente davanti a me, infinite sagome di cartoncino che si avvicendano in questo carillon che non ho scelto io. Qualcuno l’ha fatto per me, creandolo pezzo per pezzo. Qualcuno che sto per incontrare: Barbara Baraldi. È lei la mia creatrice.
Devo concentrarmi sulle domande da porle, le domande sono importanti.
Colline lontane, basse e scure. Le nuvole tracciano strisce rosa sullo sfondo panna del cielo mattutino. Qualcosa di assoluto ferma lo scorrere del tempo. Forse è questo l’ultimo giorno, agghindato per il suo funerale come fosse un matrimonio. Il treno ha un effetto ipnotico, i pensieri scivolano fuori. Sono come sospesa quando arrivo nella piccola stazione di provincia, luogo di incontro concordato. Mi affaccio dal finestrino e lei mi scorge.
“Ciao Barbara”, le dico quando mi raggiunge nello scompartimento. Ha lunghe gambe imprigionate in calze nere a rete. Mi viene in mente un’immagine usata nel libro dove prendo vita, “La collezionista di sogni infranti”: un portico di Ferrara con i pilastri che si incrociano. Sembra un ragno gigante, lunghe zampe che fanno paura tra la nebbia. Lei però si arrampica solo su muri composti di lettere. Muri di mattoni neri e bianchi che ammassa pian piano sul display del suo Pc.
Barbara è rannicchiata per scaldarsi e non scorgo che i suoi occhi chiari di caramella. Saltiamo ogni convenevole, ci conosciamo bene. Comincio con la prima domanda sensata che mi viene in mente. “Quando hai cominciato a scrivere, Barbara? Perché hai il bisogno di costruire mondi neri su altri mondi bianchi?”
Amo raccontare storie. Storie di tutti i tipi. Lo facevo per tenere buoni i miei fratelli più piccoli. Spaventose, con streghe e orchi che li avrebbero portati chissà dove se non avessero obbedito. Spesso mia madre si meravigliava di quanto fossero disciplinati quando facevo loro da babysitter. E poi storie erotiche durante aperitivi a due, e ancora storie ironiche, magari a più voci, con le amiche. Un giorno ho capito che potevo scriverle e mi si è aperto davanti un mondo intero. Amo sperimentare e cerco di non impormi limiti.
Non riesco a staccare gli occhi dal finestrino, il cielo si è ora colorato di striature azzurre. Mi piace parlare con Barbara, mi piace quello che dice. So che è un dio magnanimo, e mi stupisco di non avere fede. Forse perché mi ha fatto vivere le mie paure peggiori, la ciocca di capelli bianchi che mi tocco di continuo ne è la prova.
“Cos’è la paura? Perché la evochi nei tuoi romanzi?”
La paura è tutto ciò che ci limita. Penso che evocare i fantasmi delle paure sia un modo per esorcizzarle.
Anche il paesaggio impassibile sembra in ascolto. La pianura si scioglie sotto la luce del mattino terso. Il mondo torna ad animarsi vorticosamente e il traffico è un mare di caos che monta lungo la statale parallela alle rotaie su cui scivoliamo.
“Come è stato il percorso che ti ha portato alle prime pubblicazioni? Cosa ti ha sostenuto in tutti quegli anni?”
È stato un viaggio lungo e difficile. Proporre le proprie opere per la pubblicazione significa sottoporsi a un giudizio, a volte a un rifiuto. È necessaria una buona dose di umiltà per saper accettare le critiche e mettersi in discussione. Quando ho terminato la stesura del mio primo romanzo, “La ragazza dalle ali di serpente” (Zoe 2007), l’ho lasciato riposare per mesi indecisa sul da farsi. Poi l’ho riletto a mente fredda e nuovamente revisionato. Si tratta di un romanzo erotico ambientato in una Bologna seducente e notturna. Reduce dalla visione di Vampyros Lesbos di Jesus Franco mi ero lasciata ispirare da quelle atmosfere. Ho poi scelto una decina di editori adatti alla tematica e l’ho inviato accompagnandolo da una lettera di presentazione. Forse anche per proteggermi ho optato per uno pseudonimo: Luna Lanzoni. La pubblicazione è stata suggellata da un nuovo tatuaggio, sulla coscia.
Lasciamo il traffico per ritrovarci nuovamente nella campagna silenziosa. Qui parlare è più intimo, piacevole. Solo qualche olmo a lato di campi sterminati. Mi viene in mente che la campagna ritorna spesso nei suoi mondi di parole.
“Che legame hai con la pianura in cui sei cresciuta e con la natura in generale? Natura fa rima con paura?”
La campagna ha sempre provocato in me una paura atavica. Spazi immensi puntellati da case isolate, macerie sorvegliate da salici piangenti. E poi nebbia insistente che copre ogni cosa e confonde la realtà. Durante la notte i miei sensi divenivano acuti e cercavo di dare un nome ai richiami dei rapaci notturni, ai gridi ovattati; prede e cacciatori che vivevano una vita parallela. La campagna emerge prepotente ne “Il giardino dei bambini perduti”, novella contenuta nel libro “La bambola di cristallo” (Mondadori 2008). Anche “La collezionista di sogni infranti” è intrisa delle sue sensazioni. Natura fa rima con paura, perché sa essere violenta e spietata. In altri romanzi mi sono spostata nella città, non meno ricca di fascino e spunti poiché nasconde differenti pericoli e predatori.
Il nostro conversare viene interrotto da una visione grottesca: un macaco dal pelo grigio blu si accovaccia nel posto di fianco a noi. Mostra gli occhietti marroni incastrati nella fronte prominente, sorride stirando come un sipario la bocca enorme, esibisce i denti gialli. Tiene in mano un piccolo violino e cerca di suonare dedicandoci un’assurda melodia. Sembra dire: “Ascoltate”, mentre ciondola il capo peloso, tra insensati movimenti del braccio. La metafora della Follia. Un’altra grande protagonista dei romanzi di Barbara, sorella della Paura.
“Dove abita la follia nei tuoi romanzi?”
Vive nella quotidianità. Nelle azioni spesso meccaniche che si compiono ogni giorno; nella disillusione, nel sopravvivere smettendo di chiedersi cosa c’è che non va. La follia fa parte dell’essere umano, una sorta di equilibrio che in ogni momento si può spezzare.
Ma anche l’arte è follia. Lucidissima follia che permette di creare mondi che non esistevano. Una follia che ha il dovere di segare in due le apparenze, di farci sentire suoni inconsueti che altrimenti ignoreremmo.
Le chiedo: “Nei tuoi romanzi c’è l’immaginario nero di certe fiabe della buonanotte ma anche citazioni cinematografiche e quotidianità. Sono queste le tue fonti di ispirazione?”
Come in un calderone miscelo i miei ingredienti. Sono appassionata di cinema e confesso di guardare un film al giorno. Cinema di genere, cinema orientale ma anche classici in bianco e nero, pellicole misconosciute e perle degli anni settanta. E adoro le fiabe, ne sono attratta da sempre. Di fianco al comodino ho una pila di libri che le raccolgono, alcuni provengono dalla mia infanzia e ancora mi spaventano perché contengono quell’illustrazione o quella fiaba in particolare che scatenava le mie fantasie più oscure. Poi c’è la vita, che rimane sempre la maggior fonte di ispirazione.
Ci siamo ormai abituate alla nenia che accompagna i nostri discorsi. Il macaco è sempre lì, silenzioso e imperscrutabile. I depositi dei treni ci annunciano che la stazione di Bologna è a poche centinaia di metri e Barbara mi avverte che è lì che scenderà. È tempo dell’ultima domanda, prima di separarci.
“Cosa ci dobbiamo aspettare da Barbara Baraldi per il 2009?”
Il seguito de “La collezionista di sogni infranti”. Una nuova novella nera in cui tu, Amelia, tornerai per affrontare i fantasmi delle tue paure. Il primo romanzo nasceva da una riflessione sul mondo virtuale, una sorta di parabola neogotica sulla doppia identità e sulle maschere. “La casa di Amelia” sarà un libro seducente sulla memoria che distorce i ricordi attraverso il filtro del senso di colpa. Il libro è godibile anche senza aver letto il primo e impreziosito dall’illustrazione di copertina del fumettista Onofrio Catacchio. E poi ci sono vari progetti con Mondadori di cui non parlo ancora per scaramanzia.
Barbara mi lascia una carezza e la scia del suo profumo mi avvolge prima di vederla sparire su un taxi, sempre con quei tre metri di gambe da ragno scrittore. Una piccola mano stringe la mia; abbasso gli occhi e incontro quelli nocciola del macaco grigio blu. L’ho ribattezzato “Paganini”. Ci avviamo verso il nostro treno: destinazione sconosciuta.