“Eccola, è così. La bambola si è animata, si muove, lo guarda e ride mostrando i piccoli denti lucenti. Si avvicina vestita soltanto di una sottoveste in pizzo nero che gioca con la luce arancione mostrando e nascondendo le gambe nude che si muovono sotto il tessuto. Ha qualcosa di lucente in mano. Una mezza luna tagliente come una nota stonata…”.
C’è violenza e poesia nei gesti della bambola di cristallo. Rabbia e rivincita. Seduzione e disperazione, in una Bologna gotica che dona nuova linfa alla nostra narrativa di genere.
E’ la storia di tante donne e di tutte le donne, quella della bambola. C’è Viola, fragile e trascurata, che vaga per la casa con indosso il maglione del suo uomo, per sentirne l’odore. Si mangia le unghie e “piange. Piange spesso, forse tutti i giorni, almeno per un minuto”. Poi c’è Eva, che sogna di diventare una nota pubblicitaria, va in palestra per farsi in muscoli dopo il Fatto, e “dice a se stessa che domani sarà differente”. C’è anche Giulia, ricca e viziata, quella che a nove anni portava nella borsetta i soldi del monopoli e ora passa da un ragazzo a un altro per noia. Per lei non è importante l’oggetto in sé, “bensì la strada, lo stratagemma per ottenerlo”. E come dimenticare la gatta Miew? Miew che guarda fuori dalla finestra. Miew fedele e dispettosa che “forse vorrebbe trasformarsi nel cavallo alato, il cavallo alato dei biscotti col buco”. Ma soprattutto c’è Lei, la bambola: “è come un ragno, tesse la sua ragnatela, prepara ogni cosa con cura, poi si fa seguire. Sa come farsi seguire da un uomo e li fa cadere in trappola. Non attacca, la sua è una difesa. Premeditata”.
Non c’è modo di riporre il libro senza chiedersi dove andrà a parare l’ultima pagina letta. I capitoli snelli, legati di volta in volta al punto di vista di una delle numerose maschere (niente e nessuno è ciò che sembra, e le caratterizzazioni ricche di chiaro scuro rendono affascinante ogni personaggio della vicenda) s’intrecciano in modo da risultare la somma di varie storie parallele.
Ma c’è un gioco dietro a tutto questo. Ed è il gioco di chi ha premeditato tutto sin dall’inizio. E non si tratta dell’assassina.
Come i personaggi tornano indietro con la memoria, facendo puzzle di ricordi apparentemente minimi ma pregnanti, da locandine d’annata a vecchie pubblicità, anche l’autrice si diverte a usare i giochi dell’infanzia e, mattoncino dopo mattoncino (ben incastrati soprattutto quelli relativi ai dialoghi, in cui le sfumature dei personaggi emergono senza caricare troppo la narrazione), porta avanti la sua costruzione, fino a confluire nella verità finale.
Una costruzione, una bambola: un gioco, che è anche una testimonianza di indubbio talento.
Ma il libro ci riserva una sorpresa: a seguito di questo piccolo gioiello, troviamo anche un testo a metà strada fra il romanzo breve e il racconto lungo (Il giardino dei bambini perduti) e un racconto (Soave).
Il giardino dei bambini perduti non è altri che una tana. La tana di un Mostro. Un Mostro che annida in sé tutte le paure ancestrali dell’essere umano, omaggiando Hitchcock e la psicanalisi. Dalla schizofrenia alla rimozione infantile, dalla suspense costruita su ciò che, al contrario della protagonista, il lettore sa alla doccia. E’ un po’ il rovesciamento del mito della letteratura d’appendice. Là, dove la città veniva individuata come il ricettacolo di ogni male, a differenza della campagna, in cui il rapporto con la natura era rimasto genuino, qui abbiamo una città simbolo della famiglia, violata, derubata di ciò che ha di più caro, ovvero i suoi cuccioli. Al contrario ci viene presentata una campagna oscura, minacciosa, carica di simboli morbosi e di pericoli che possono nascondersi dietro ogni vigna o ai piedi dei pomodori.
Il lettore più smaliziato potrà trovare il finale un po’ prevedibile, ma la bellezza del racconto sta nella descrizione degli ambienti e delle sensazioni dei personaggi, stavolta non abbandonati ai ricordi, ma sopraffatti da essi.
Il racconto breve è un omaggio al poliziesco all’italiana. La velocità e la violenza delle azioni sono rivolte all’estremo, così come il linguaggio, che, paradossalmente, contrasta col titolo e l’immagine poetica che incornicia questa vicenda di sparatorie e inseguimenti notturni in una Modena: “svogliata agitata da poche anime inquiete”.
Un testo sicuramente da non perdere, quello di Barbara Baraldi. Uno e trino nella sua varietà di stili e messaggi.