Barbara Baraldi incontra i personaggi del suo romanzo “La Collezionista dei Sogni Infranti”

“Siediti Barbara”. La voce era calma, sensuale. Era seduta al tavolo di cucina, inghiottita da una penombra fitta. La finestra dietro di lei mi permetteva di coglierne la sagoma, lame sottili di luce le decoravano il braccio destro. Giocherellava con un salvadanaio a forma di maiale, fuori dalla penombra assieme alla mano, sul tavolo bianco e verde. Spostai indietro la sedia e mi sedetti anch’io, di fronte a lei. La luce del tramonto che abbagliava un po’, illuminando al contempo i tratti del suo volto. Un chiaroscuro, quasi alla Caravaggio. Marina, sei come ti immaginavo, sei tu il personaggio che ho amato di più, mia creatura. Non oso dirglielo. L’ombra è la tua dimensione Marina. Non sei malvagia, ti sei persa nel mare di specchi della tua mente. Questa penombra non ti ha aiutato, questo nulla ha solo nascosto gli specchi. Mi dispiace. Non ne sarei uscita neanche io.
“Sei venuta allora, Barbara. Hai fatto bene. Anche tu in questa terra di nessuno, si sta bene la sera. Dovresti saperlo. L’hai creata tu, questa provincia ferrarese.”
Era già successo tutto, non c’era più motivo di agitarsi, di angosciarsi. Di soffrire. Lei era calma, mi pareva senza rancore, ora. Tutto sembrava come redento, seppure sotto una luce sinistra, irreale.
“Sei venuta per vedere come sto, ora?”. Non aspettò la risposta, non ci avrebbe creduto. “La vita in cui mi hai infilato dentro è languida e lugubre come questo tramonto. La sua luce è falsa e vuota. Come il silenzio di questa casa. Come la mia solitudine. Per due anni sono fuggita da questa pianura lunare. Mi collegavo al computer, lo sai, e cercavo Amelia. L’altra tua “creatura”, si dice così no? Ci parlavo a lungo, una menzogna dopo l’altra, bugie di pixel. Non ho mai capito perché la cercassi così tanto, così ossessivamente. Lo facevo e basta, io sono impulsiva. Non è stata una buona idea invitarla qui, il gioco non ha retto, le mie bugie mi hanno travolto come un liquame nero.
“Dimmelo tu chi era Amelia per me, voglio saperlo, ne ho il diritto.”

Amelia era il tuo desiderio. Nelle notti di solitudine in cui ti sentivi come una barchetta di carta in mare aperto lei era lì, per te. Una bambola dalla pelle lunare che il mondo con le sue menzogne non aveva intaccato. Sporcato. Amelia era la tua maschera preferita. La indossavi per vivere un giorno di più e non affogare in questo oceano di desolazione fatto di campagna sperduta, claustrofobia sensoriale, incomprensioni. Ma quando il piano del vostro rapporto si è spostato da virtuale a reale, quando lei ti ha raggiunta e guardata negli occhi…
Ha disseppellito i cadaveri delle tue bugie, ti ha spogliata delle tue svariate identità.
Ora sei rimasta solo tu, Marina.
La vera Marina.
Non piangere.

Ora sono su un treno, un interregionale che solca veloce la pianura.
Lo stesso che l’ha portata da Marina. Anche lei è trascesa dalla luce di questo strano tramonto. Su di lei ha un effetto differente, la luce è piena e chiara, ma malinconica ed eterea come quella di un martirio. Ho pagato io il biglietto ad Amelia, la mia altra figlia di cellulosa. Mi sento un po’ in colpa. In un epoca in cui i riti di passaggio non esistono più gliene ho rifilato uno bello pesante. Le fatto conoscere il delirio e la follia, più di una volta, a dosi crescenti. E sua sorella la Morte.
Ora ne porta un segno nel corpo, un segno quasi trascurabile che potrebbe sembrare un vezzo estetico. Piccolo agnellino che eri, belavi via chat. Ti eri fidata di Marina, ti eri avvicinata a lei con lo stesso semplice candore con cui ti abbeveravi alla fonte. Ora parliamo del più e del meno. Si veste sempre allo stesso modo, un’esile bambola di ceramica vestita di pizzo nero, il viso bianco come la luna. Sembra uscita dal Rocky Horror Picture Show. Non è più la bambina di prima. Non potrebbe esserlo.
Si gira, mi fissa negli occhi, i suoi sembrano due biglie accese, chiari come il cielo che ora sta lasciando spazio alla notte.
Mi chiede: “Cosa sono diventata ora? Cosa mi è rimasto?”

Ora sei diventata la Collezionista di Sogni Infranti.
Sulle gambe esili da ballerina hai poggiato la scatola rosa, la scatola dei segreti inconfessabili che contiene la chiave del cambiamento.
Vivere è trasformarsi, evolversi in continuazione.
Tu vivevi nella paura. Ora, il tuo nome fa rima con paura.
Tu sei Amelia, la Regina dei Sogni Infranti.

Alex, il fidanzato di Marina mi guarda, tenendosi una mano sugli occhi per ripararsi dal sole rossastro che scende. Siamo in aperta campagna. Mi avvicino, lo tocco sul braccio. Sembra carta, la carta dei fumetti. Ora che lo guardo bene ha il tratto a china sfuggente e sinistro dei fumetti horror. Non ha colori in realtà. E’ immobile, non parla nè ride più sguaiatamente come prima. Ora che tutto è successo è immortalato in una vignetta che non può andare oltre. Si è rivelato il personaggio più dirompente, ha squarciato il velo della realtà.
Sento la sua voce, anche se la sua bocca è immobile.
“Barbara, definisci tu che tipo di storia è questa”

La vostra storia è una fiaba nera.
Sia per struttura narrativa che per costruzione. Il finale, seppur agghiacciante e crudele, termina con un “E vissero felici e contenti”.
Qualcuno l’ha definita una sorta di “Alice nel Paese delle Meraviglie” in un mondo che di meraviglie non ne riserva più a nessuno. E come in tutte le fiabe c’è un viaggio da compiere, personaggi da incontrare, animali simbolici. La Paura è quasi personificata e come una regina cattiva va affrontata.
Addentratevi in questo mondo e danzate insieme ai topolini con la faccia da bambini, perdetevi nella via degli archi simili a lunghe zampe di ragno e dividete la carne del pollo arrosto, il re del mondo di crostini e foglie di insalata con le dolci e crudeli ninfe nel Mondo dei Sogni Infranti.

Di Abnormal pubblicata sul magazine di Sickgirl.


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