Se, come suggerisce Vincent Left all’interno dell’albo, «il silenzio è morte», allora Gli anni selvaggi è più vivo che mai. L’albo sta facendo molto parlare di sé e, fin dal giorno della sua uscita, si rincorrono per la rete le opinioni dei lettori. Alla vigilia dell’uscita, lo sapete, mi tremavano le gambe per come questa storia sarebbe stata accolta. Oggi, per le emozioni che tutti voi mi state trasmettendo con le vostre parole. Naturalmente, se avete voglia di raccontarmi cosa ne pensate dell’albo, vi aspetto su Facebook. Nel frattempo, ecco una piccola carrellata di estratti da articoli usciti nei blog sparsi per la rete.
Jacopo Cerretti di C4Comics non ha dubbi: «Barbara Baraldi e Nicola Mari hanno consegnato ai lettori un albo bellissimo e calibrato in ogni spazio, in ogni dialogo ed espressione» aggiungendo che «questo è il miglior albo di Dylan Dog uscito quest’anno». Secondo lui «Barbara Baraldi si conferma una penna interessantissima e di valore inestimabile nell’ottica di mantenere vivo un personaggio tormentato come Dylan Dog. Gli anni selvaggi mi ha dato e tolto tutto nell’arco di 98 pagine, cosa che quando accade mi porta a tornare a pagina 1 e ricominciare la lettura, magari per cercare di trattenere qualcosa che puntualmente mi verrà strappato ancora via». Per il comparto grafico, «appare evidente che Nicola Mari e musica rock sono quanto di più armonico possa esistere. Mari è riuscito ad imprimere una rarefatta nostalgia nelle scene ambientate nel passato e un concreto e oscuro orrore nel presente».
Per Gli Audaci «non è mai semplice trasporre su carta emozioni forti. Con questo episodio Barbara Baraldi ci è riuscita in maniera cristallina e convincente, dimostrandosi una sceneggiatrice dotata di grande sensibilità. La scrittrice emiliana descrive la parabola distruttiva di un rocker e sembra di avvertire distintamente in ogni tavola il suono fragoroso dei sogni che si schiantano al suolo. Gli elementi tragici e gli spunti di riflessione si fondono alla perfezione, come accade solo nelle storie davvero profonde». Riguardo ai disegni, si tratta di «un Nicola Mari in stato di grazia. Le sue figure longilinee, i corpi sinuosi e imperfetti, fanno trasparire con immutata eleganza le profondità dell’anima».
Gianluca Tammaro su Rolling Stone evidenzia che «ci sono i ricordi, i rimpianti, “quello che volevamo fare” e “quello che poi siamo diventati”. Un Dylan umano e i mostri che siamo noi; anzi no, meglio: i mostri sono i nostri desideri – e quello che, pur di realizzarli, siamo disposti a fare».
Per Lorenzo Jonas Stanislaus, che scrive nel blog La torre muove e scacco al re, l’albo «riesce a unire la vecchia guardia e chi non ha mai letto un albo della Bonelli». Secondo lui si tratta di «una storia perfettamente Doghiana (si scriverà così!?)» in cui «il dolore dei personaggi è talmente tangibile che si sente a pelle, la storia in sé a mio modesto avviso è alla pari alla miglior storia di Sclavi». Inoltre «graficamente è a dir poco eccelso, ormai l’unico che può superare il Maestro Mari è il Maestro Mari stesso».
Lorenzo Barberis su Barberist, al termine di un’approfondita riflessione sul simbolismo presente all’interno della storia, afferma che «questo secondo albo della Baraldi si muove bene su un complesso intreccio di sequenze temporali che si vanno a intersecare a snodi salienti del canone, modificandolo in modo significativo», per poi concludere che «la storia funziona a un primo livello, con l’abbondante uso del tradizionale splatter, eros e thanatos tipico già del precedente lavoro baraldiano: come nell’albo precedente, comunque, appare anche interessante l’intreccio “di secondo livello”, evocato dalla Baraldi con tante piccole suggestioni». Secondo lui «Anche nel prevalente acquerellato il segno di Nicola Mari è riconoscibilissimo e molto efficace, ma il meglio di sé lo dà quando può esercitare compiutamente la sua Opera al Nero (il “flashback profondo” 59-63, ma anche le varie sequenze splatter del presente). Il forte parallelismo tra il suo stile e quello della Baraldi contribuisce nuovamente alla riuscita dell’albo».
Roberto Arcuri su Jazz from Italy ammette: «sì, mi ero dimenticato di Dylan… ed ora non so più se lo avevo allontanato dalle mie frequentazioni perché credevo fosse cambiato lui o se, invece, fossi rimasto fermo io. Ma vivere nuovamente in quegli “Anni Selvaggi” le emozioni di “Boys Don’t Cry” o risentire anche solo l’eco delle sonorità elettroniche di “Black Celebration” beh, è stato più che ritrovare un amico, è stato come abbracciare me stesso…». Secondo lui «questa storia è dannatamente coraggiosa» e, riguardo ai disegni di Nicola Mari: «quei segni sono perfettamente imperfetti… non nel senso puramente estetico, che è fatto più di scosse elettriche, memoria dimenticata e rivelazioni individuali che di “regolette”, ma perché ascoltano la storia, si adattano a questa eppure la condizionano, la penetrano e gli colorano le gote, la vivono, insomma».
Concludo la carrellata con le parole dell’autore del post 2016: The killing machine? pubblicato sul blog Memorie di un fan istantaneo. «La storia è un omaggio al rock, al glam, alla new wave e Dylan questa volta è un romantico roadie per una band di amici. I disegni di Mari evocano la fisicità di Egon Schiele, la storia racconta di amore, musica e morte come nella migliore delle tradizioni rock’n’roll. Il successo diventa incubo materiale che uccide letteralmente chi svende la propria musica, la solitudine è la punizione di chi preferisce il successo all’etica personale e agli affetti. Sono topoi classici della narrazione rock ma sempre attuali, soprattutto oggi che le rockstar sono frutto di attente operazioni di marketing».