Sentenza artificiale: dal 9 luglio in libreria!

Sentenza artificiale
Sentenza artificiale

Il mio nuovo thriller Sentenza artificiale (Chiarelettere) esce il 9 luglio in tutte le librerie. Si tratta di un romanzo autonomo, in discontinuità con la serie di Aurora, con una protagonista che non vedo l’ora di farvi conoscere: Cassia Niro, analista ministeriale coinvolta in un’indagine senza respiro, in cui in gioco non c’è solo la sua vita ma la tenuta dell’intero sistema democratico. «Saremo giudicati da un algoritmo? Un romanzo così verosimile da sembrare un incubo.»

Proprio giovedì 9 luglio, sarò a Modena per un firmacopie presso la libreria Mondadori Bookstore del Cinema Victoria, a partire dalle 18:30. La mia prima data post lockdown, in tutta sicurezza e nel rispetto delle norme sanitarie vigenti: potrete avere la vostra copia autografata, il giorno stesso dell’uscita!

Una riflessione sul nostro futuro prossimo in cui le scelte umane saranno sempre più influenzate – e in alcuni casi determinate – dalle macchine e dall’intelligenza artificiale. Un thriller nerissimo, come siete abituati dalla mia penna. Ma anche una riflessione sul ruolo degli algoritmi di intelligenza artificiale nella società odierna, e sulle problematiche etiche che solleva. Cosa succederebbe se l’uso della I. A. venisse esteso a campi in cui la discrezionalità umana è fondamentale, come la giustizia?

Il dibattito sulla giustizia in Italia è quanto mai acceso; ma sarebbe davvero possibile delegare decisioni di carattere penale a un algoritmo? Non è fantascienza: in alcuni stati degli USA è già un algoritmo a decidere sulla libertà vigilata dei detenuti. Ma nell’affidarci a questo tipo di tecnologia, non possiamo dimenticare le enormi problematiche etiche che solleverebbe la sua applicazione. Una macchina, per esempio, non è in grado di distinguere tra “bene” e “male” come li intendiamo noi esseri umani.

Il futuro è adesso. In un’aula del palazzo di giustizia di Roma, gremita di giornalisti e tecnici ministeriali, il visionario manager Aristotile Damanakis presenta LexIA l’algoritmo di “sentenza artificiale” che rivoluziona il processo penale: a stabilire la colpevolezza di un imputato sarà un programma in grado di considerare ogni aspetto del caso, dalle circostanze alle prove, dalle testimonianze alle attenuanti, rendendo superfluo ogni intervento umano. Basta un algoritmo per decidere se una persona ha commesso o no un delitto. Ma a scombussolare i piani del governo ci pensa l’affascinante e coraggiosa Cassia, che scopre un’anomalia mimetizzata nel codice di LexIA che potrebbe comprometterne l’imparzialità. La ragazza non ha dubbi: qualcuno ha violato la sandbox di protezione del sistema. Chi sta mettendo le mani sulla riforma della magistratura? Chi è disposto a uccidere pur di manipolare le sentenze? Da quel momento Cassia diventa un bersaglio. Come lei è stata in grado di vedere l’anomalia, qualcuno – attraverso l’anomalia – ha visto lei. Qualcuno che è disposto a tutto pur di coprire le proprie tracce. Nel complotto sono implicati gli stessi organismi che dovrebbero garantire l’imparzialità della giustizia e Cassia è determinata a fermarli a qualunque costo, mentre sulla vicenda incombe una domanda che in pochi sono disposti a porsi: «Se nessun uomo è al di sopra della legge, può esserlo una macchina?»

Il romanzo è già disponibile per la prenotazione in libreria, su Amazon, Ibs, Lafeltrinelli.it e sugli altri store online.

Paziente 99

Da oggi è disponibile per l’acquisto sul Delos store il numero 67 di ROBOT, la storica rivista di fantascienza fondata da Vittorio Curtoni. All’interno c’è un mio racconto lungo, inedito, intitolato «Paziente 99». Per me è un grande onore, e ringrazio Franco Forte e Silvio Sosio per avermi dato la possibilità di confrontarmi con un genere che amo, al cinema quanto in letteratura, la fantascienza. Come ambientazione ho scelto gli abissi come omaggio al maestro Lovecraft e alle antiche divinità da lui descritte. Queste le prime righe di «Paziente 99»:

Non avevo mai visto la luce del sole. Il mondo, per me, era come una palla di cristallo. La Colonia Terra 2, dove vivevo, era situata a quattromila chilometri sotto il livello del mare.

Mia nonna se lo ricordava ancora, la sensazione del calore del sole sulla pelle. La sensazione di vivere sulla terraferma. La lasciò che era poco più che una bambina. A volte mi parlava della brezza, che in certi momenti ti coglieva inaspettata, come una carezza. Da piccola, mi ero fatta ripetere all’infinito i suoi racconti. Tuttavia, per quanto si sforzasse, non le era mai stato possibile descrivere un tramonto.

Afferrai il dispenser per dare da mangiare al pesce pappagallo. Non potei fare a meno di pensare che ero proprio come lui, chiusa tra quattro pareti di vetro per sopravvivere. La stessa sorte sarebbe toccata ai miei figli, e ai figli dei miei figli. Non feci in tempo a raggiungere l’acquario in sala, che il DPS si attivò. Era una chiamata in arrivo. Si trattava di Abel, il mio collega in laboratorio. Come tutti gli abitanti di Terra 2, avevo installato un dispositivo di comunicazione psichico sottocutaneo, collegato ai centri nervosi. Quando risposi, il tono di Abel era concitato. “Il paziente 99 sta avendo una crisi” mi disse.

“La risposta a una flebo di plasma?” chiesi.

“Peggiora le cose. Gli ho anche somministrato una dose di Protoderm. Niente da fare. C’è qualcosa che non va. È diverso dalle altre volte. Devi venire qui, spero solo che tu faccia in tempo”.

Rimasi per un attimo smarrita, col dispenser in mano, al centro della stanza. Poi afferrai la borsa, e mi precipitai nel corridoio, e uscii in direzione del tunnel che sbucava nel Quadrilatero principale, in mezzo alla folla ordinata di persone che la percorreva. Con le parole di Abel che mi rimbalzavano nella testa, iniziai a correre. Di fronte al Sushi bar, un agente mi intimò di fermarmi. Rallentai, e ansimando lo pregai di lasciarmi andare.

“Il regolamento è chiaro” mi disse. “Non è consentito correre, gridare, o compiere attività che turbino l’ordine pubblico”.

Mostrai il mio tesserino di riconoscimento. La scritta Centro Infezioni e Contagi bastò a farlo impallidire.

“È un’emergenza” ripetei con voce ferma.

Decise di scortarmi con il suo veicolo d’ordinanza. Gli esponenti delle forze dell’ordine erano gli unici, nella Colonia, a disporre di mezzi di trasporto autonomi. Per tutti gli altri, c’erano tunnel e vagoni pneumatici che collegavano i vari Distretti, che erano disposti in due livelli principali di profondità. A eccezione del Distretto 99, il più periferico, privo di collegamenti per i trasporti pubblici.

In una decina di minuti, arrivai al CIC. L’intero insediamento mi era sfilato davanti agli occhi come un film con l’avanzamento veloce. Ringraziai l’agente con un cenno della mano. Lui sembrò aver molta fretta di tornarsene alla sua postazione.

Le porte a scorrimento si aprirono una dopo l’altra, attivandosi con gli impulsi del mio DPS. Oltrepassai la doccia sterilizzante e indossai la tuta e la mascherina per filtrare l’aria. Abel mi venne incontro.

“Mai visto niente del genere” disse. “Ha iniziato a perdere liquidi. Se continua così, sarà disidratato nel giro di pochi minuti”.

Entrai nella camera sterile. Il paziente 99 era disteso nella vasca che fungeva da giaciglio. Il corpo, parzialmente immerso nella soluzione idrosalina, era scosso da convulsioni. Era stato chiamato così per via del Distretto dove era stato trovato, in stato comatoso. Il corpo era solcato da infinite ferite che perdevano un liquido giallastro. Le mani semipalmate sembravano voler afferrare qualcosa che solo lui poteva vedere. La pelle sottile e traslucida lasciava intravedere venature azzurrognole. I grandi occhi sporgenti esprimevano sofferenza, ma anche rassegnazione. Con due falcate raggiunsi il lettino. Il suo sguardo fu attraversato dal guizzo della consapevolezza. Sembrò riconoscermi. Mi si aggrappò alla tuta con forza, avvicinando il viso al mio. Aprì la bocca, come per parlare, ma un conato violento non glielo permise. Un miscuglio di liquami e sostanze gelatinose mi si riversò sulla tuta, all’altezza dell’addome. “Stai calmo” dissi, cercando di mantenere un tono accondiscendente, ma fermo. Lo feci distendere e, tenendogli una mano sulla fronte, gli tastai la trachea. Mi accorsi che i linfonodi erano gonfi. Il respiro un rantolo. Cercai lo sguardo di Abel. “Ha una crisi respiratoria. Aumenta la concentrazione dell’ossigeno nella vasca, presto” gli intimai.

“Già fatto. Ha solo peggiorato la situazione” rispose Abel.

Lo guardai con determinazione. “Allora dobbiamo tentare il tutto per tutto. Portami il prototipo H2N5”.

“Asia, non abbiamo la minima idea di come possa reagire. La somministrazione a pazienti umani non è mai stata autorizzata. E sono sicuro che ricordi cosa è successo alle cavie”.

“Lui è diverso” dissi. “Prendilo e basta”.

Abel fece un passo in avanti. “Ti prego, non farlo. Non puoi addossarti questa responsabilità. Sta per morire. In questo modo, fornirai a quelli della SSC un facile capro espiatorio”. La SSC, la Supervisione Scientifica Cittadina. La temuta polizia sanitaria a cui dovevo fornire i resoconti giornalieri sul paziente 99.

“Ho passato gli ultimi tre mesi della mia vita a cercare di decifrare l’enigma di quest’uomo. E non ho nessuna intenzione di lasciarlo morire perché un burocrate non ha approvato l’uso di un farmaco”.

[continua su Robot n.67]

L’illustrazione di Paziente 99, interna alla rivista Robot, è di Zaex Starzax.