«Anita Novak è una pittrice all’apice del successo. Ma un terribile incidente l’ha privata della mano destra. Da quel momento, la sua mano sinistra, come animata di vita propria, inizia a dipingere quasi autonomamente, rappresentando la morte. Spetta all’Indagatore dell’Incubo, ingaggiato dall’artista, scoprire il nesso tra gli omicidi tracciati sulla tela e quelli che avvengono nella realtà.»
Questa la trama del n.348 di Dylan Dog come anticipata dal sito di Sergio Bonelli Editore. Ma c’è qualcosa che non poteva essere scritto tra le righe di questa anteprima, e che ha a che fare con le emozioni che mi stanno avvolgendo a pochi giorni dall’uscita in edicola dell’albo, fissata per il 28 agosto. Così come è difficile definire ciò che significa per me esordire sulle pagine della serie regolare dell’Indagatore dell’Incubo e che ho cercato di spiegare in questo post. Dylan è il primo fumetto che ho acquistato quando ero ragazzina e che mi ha sempre accompagnato da allora. Insieme a Dylan mi sono spaventata, mi sono commossa, ho provato empatia per i «mostri». E oggi ho cercato di raccontare una storia “da incubo” con tutto il rispetto per il personaggio di Tiziano Sclavi.
Con La mano sbagliata ho voluto mettere in scena una storia crepuscolare, nera, e al tempo stesso sensuale. È un omaggio ai film noir degli anni Quaranta, quelli dall’atmosfera torbida, avvolgente, e con l’immancabile dark lady in grado di fare a pezzi ogni certezza del protagonista. E come in un film in bianco e nero, Dylan si trova diviso tra la fascinazione per la “pittrice degli orrori” Anita Novak e la sensualità “salvifica” della sua antagonista, la pittrice Rita Leigh.
Come alcuni sapranno, il titolo di lavorazione dell’albo era Le mani di una morta, tributo alla più grande autrice del gotico letterario italiano, quella Carolina Invernizio definita dai detrattori «la casalinga di Voghera» e che a loro rispondeva: «Dei miei critici ho un’allegra vendetta, perché le mie lettrici sono le loro mogli, le loro figlie». E sì, come molti di voi hanno già notato, Anita deve il suo cognome all’attrice protagonista de La donna che visse due volte del maestro del brivido Alfred Hitchcock.
Dylan finisce intrappolato al centro del labirinto di ossessioni evocate dalla Novak e dai suoi quadri, ed è come se ad uccidere sia proprio la dea che domina l’artista: Ispirazione. La stessa dea che, lo vedrete, ha guidato la mano di Nicola Mari che ha illustrato questa storia. Avere avuto la possibilità di lavorare con Nicola è stato un privilegio, lui ha reso vive le mie visioni, impregnando la carta del tormento dei protagonisti, rendendo le loro paure reali. Più di una volta nell’osservare le tavole mi sono trovata con gli occhi lucidi, in una sorta di sindrome di Stendhal in cui sentivo l’abisso che imprigiona i personaggi guardare a sua volta dentro di me.
Anita è, a suo modo, un «mostro». La menomazione che ha subito ha segnato per sempre la sua anima. Ma per il suo volto ho chiesto a Nicola di ispirarsi a Veronica Lake, che secondo Bette Davis era “la persona più bella mai arrivata a Hollywood”. Volevo che ogni volta che Anita entrasse in una stanza fosse “una specie di magia”, il tempo si fermasse come quando Barbara Stanwyck scende le scale nella celebre scena de La fiamma del peccato indossando, per la prima volta nella storia del cinema, una cavigliera.
Questa storia rappresenta per me una riflessione sul mondo dell’arte, l’arte che può darti l’illusione di toccare le nuvole, ma che ti può anche distruggere… perché a volte l’arte può essere dolorosa come il risveglio da un incubo.
Già da ora ringrazio tutti quelli che avranno voglia di perdere cinque minuti del loro tempo per raccontarmi cosa ne pensano di questa storia, se hanno apprezzato qualcosa dell’immaginario che evoca. E tutti coloro che, in qualche modo, condivideranno con me questa grande (e spaventosa) avventura.